DIAGNOSI E CURA
DIBATTITI

La diagnostica, in una prospettiva storica, ha avuto per secoli una funzione eminentemente terapeutica. L'incontro fra medico e malato era essenzialmente verbale. Ancora all'inizio del XVIII secolo, la visita medica era una conversazione. Il paziente raccontava, aspettandosi un ascolto privilegiato da parte del medico; sapeva ancora parlare di quello che provava: uno squilibrio dei suoi umori, un'alterazione dei flussi, un disorientamento dei sensi e terrificanti coagulazioni quando leggo i diari dei medici dell'epoca barocca, ogni annotazione evoca una tragedia greca. L'arte medica era un'arte dell'ascolto. Un medico assumeva il comportamento che Aristotele, nella sua Poetica, pretende dal pubblico a teatro, diffondendo su questo punto dal suo maestro Platone. Aristotele chiede che lo spettatore si lasci trasportare dal attore tragico, dalle sue inflessioni di voce, dalla sua melodia, dai suoi gesti, e non soltanto dalle parole. È così che il medico rispondeva mimeticamente al paziente, si lasciava coinvolgere nella tragedia di questa particolare condizione umana. Anche i medici che avevano ricevuto una formazione universitaria conservavano un corpo capace di risuonare con quello del paziente. Per il paziente, la diagnosi mimetica di questo tipo avevo una funzione terapeutica. Ma questa consonanza presto scomparve. Oggi, l'auscultazione ha preso il posto dell'ascolto. L'ordine dato ha ceduto il posto all'ordine costruito e questo non solo in medicina. L'etica dei valori soppianta quella del bene e del male la certezza del sapere destituisce la verità. Nella musica, Matthias Rieger lo dimostra chiaramente: la risonanza ascoltata, che poteva rivelare l'armonia cosmica, scompare sotto l'effetto dell'acustica, una scienza che insegna come far sentire le curve sinusoidali nel registro di mezzo. Questa trasformazione del medico che ascolta una lagnanza, il medico che assegna una patologia, arriva al punto culminante negli anni del dopoguerra. Si spinge il paziente a guardare se stesso attraverso il diagramma sanitario, a sottomettersi a un'autopsia nel senso letterale della parola: a vedersi con i propri occhi. Con questa auto visualizzazione, rinuncerà a sentirsi. Le radiografie, le tomografie e la stessa ecografia degli anni 1970 lo aiutano a identificarsi con le mappe anatomiche appese ai muri delle aule di scuola nella sua infanzia. La visita medica serve così alla disincarnazione dell'io. Sarebbe impossibile procedere all'analisi della salute e della malattia come metafore sociali, senza comprendere che questa autoastrazione immaginaria da parte del rituale medico appartiene, anche essa, al passato. La diagnosi non dà più un'immagine con una qualche apparenza di realismo, ma un groviglio di curve di probabilità organizzati in profilo. La diagnosi non si rivolge più al senso della vista. Ormai esige dal cliente un freddo calcolo. Nella loro maggioranza, gli elementi della diagnosi non misurano più questo individuo concreto; ogni osservazione colloca il caso specifico in una "popolazione" diversa e indica un'eventualità senza poter indicare il soggetto. La medicina non è più nella condizione di scegliere il bene per un paziente concreto. Per decidere i servizi che gli si forniranno obbliga il diagnosticato, a giocarsi la propria sorte a poker. Prendo come esempio la consultazione genetica prenatale, studiata a fondo da una collega. Non avrei mai creduto a ciò che avviene senza lo studio, fatto da Silja Samerski, dozzine di protocolli delle consultazioni alle quali varie categorie di donne sono sottoposte in Germania. Queste consultazioni sono gratuite da un medico ricco di quattro anni di specializzazione in genetica. Egli si astiene rigorosamente dall'emettere qualsiasi opinione per non rischiare la sorte di un medico di Tubinga, condannato nel 1997 dalla Corte Suprema a mantenere per tutta la vita un bambino malformato. Aveva suggerito alla futura mamma che la probabilità di una malformazione simile non era alta, invece di limitarsi a fornire i numeri delle probabilità di rischio. In questi colloqui, si passa dalle informazioni sulla fecondazione e da un riassunto delle leggi di Mendel alla redazione di un albero generico-araldico per arrivare all'inventario dei rischi e una una passeggiata attraverso un parco dei "mostri". Ogni volta che la donna domanda se una certa cosa potrebbe capitare a lei, il medico risponde: "Signora, con sicurezza, non possiamo escludere nemmeno questo". Ma, con sicurezza, una risposta simile lascia delle tracce. Questa cerimonia ha un effetto simbolico ineluttabile: costringe la donna incinta prendere una "decisione" identificando se stessa e il suo bambino in arrivo con una configurazione di probabilità. Non è una decisione pro o contro la continuazione del suo stato di gravidanza di cui sto parlando, ma della seduzione della donna da parte di una identificazione di se stessa e del suo frutto con una "probabilità". Un'identificazione della sua scelta con un biglietto della lotteria. La si costringe così a un ossimoro di decisione, una scelta che si pretende umana mentre la si incastra nell'inumano numerico. Eccoci davanti non più a una disincarnazione dell'io ma alla negazione dell'unicità del soggetto, all'assurdità del mettersi a rischio come sistema, come modello attuario. Il consulente diventa una psicopompa in una liturgia di iniziazione al tutto statistico. E tutto ciò per il "perseguimento della salute". A questo punto, diventa impossibile trattare la salute come metafora. Le metafore sono dei percorsi da una riva semantica all'altra. Per natura, esse zoppicano. Ma, per loro essenza, gettano una luce sul punto di partenza della traversata. Cosa che non può più succedere quando la salute è concepita come l'ottimizzazione di un rischio.
Articolo di Ivan Illich
