DOMENICA 2 MAGGIO 2021

02.05.2021

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l'agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli» 

(Gv 15,1-8)

Nicola Cusano scriveva che l'intera vita umana si individualizza in noi. Ed Ernst Bernhard aveva chiara consapevolezza di come noi stessi fossimo "il punto di transito dell'accadimento umano", e quindi chiamati a realizzare in noi, attraverso modalità uniche e irripetibili, "il progetto dell'Adam", il progetto, cioè, dell'Uomo completo. Il modo con cui reagiamo alle sfide che la vita ci pone ha un effetto sul tutto. Le possibilità di Vita si dispiegano anche grazie alla disponibilità con cui ciascuno di noi pronuncia il suo "Sì" alla vita, il suo "Eccomi!"', assumendosi responsabilmente il proprio destino, per fare la sua parte. La vita, evidentemente, vuole qualcosa da ciascuno di noi e ci ha situato in uno specifico contesto storico e sociale perché facciamo la nostra parte. La vita vuole qualcosa da noi, e spesso questo va contro quello che vogliamo noi con il nostro ego rattrappito. Acconsentire a ciò che forse mai cercheremmo, ma che sappiamo essere l'adempimento del nostro destino, accettare di partecipare attivamente alla Vita, fino al punto da sottometterci umilmente alla Vita, come "servi inutili": ecco cosa significa riconoscersi «tralci» innestati nella «vite». Non si tratta solo e semplicemente di "conoscere se stessi" - come invitava a fare l'oracolo di Delfi - ma, più radicalmente ancora, di "essere se stessi", adempiendo fino in fondo e con coraggio al nostro destino. Noi siamo il totum in parte: nella parte che siamo c'è il tutto.

O Creatore eterno delle cose, che vigili sul giorno e la notte, e alterni il ciclo delle stagioni per alleviare il tedio della monotonia.

Il banditore del giorno già canta, scolta vigilante della profonda notte, luce notturna ai viandanti, segna i limiti della notte.

La stella mattutina ne è risvegliata, discioglie le ombre dal cielo, la schiera degli spiriti erranti abbandona le vie dei misfatti.

Il marinaio rinnova le sue forze, le onde del mare si placano, al suo canto la Pietra della Chiesa lava le colpe nel pianto.

(Sant'Ambrogio) 


3. Il silenzio al di sopra della parola. 

II silenzio è uno. 

Le parole sono molte. Rigorosamente parlando, questa glossa dovrebbe essere lasciata in bianco, ma la priorità non significa esclusività. Nell'ambito di categorie trinitarie potremmo sottolineare la maggiore attenzione che il monaco rivolge allo Spirito rispetto alla Parola, senza che questo implichi assoluta priorità. Implica, tuttavia, l'essere sempre attento allo spirito nella parola. Per esprimerci con categorie filosofiche, abbiamo a che fare con la priorità del mythos sul logos. E, parlando con accentuazioni morali, potremmo spiegare questa regola affermando che essa ha a che fare con una nuova innocenza che non ha più altro da dire, perché sente che tutto è già stato detto e che la parola non è altro che il manto della realtà e troppo spesso la sua tomba. Coloro che ascoltano il silenzio dal quale la parola emerge spesso non hanno bisogno di parole, e la parola stessa nasconderà questo silenzio a coloro che non lo hanno ancora scoperto. (Raimon Panikkar, Beata semplicità. La sfida di scoprirsi monaco)Il terzo sutra ci conduce al silenzio, a quella dimensione della vita spirituale che è al di là e al di sopra della parola. A rigor di logica questa pagina, osserva acutamente Panikkar, avrebbe dovuto essere lasciata in bianco: parlare del silenzio è già in certo qual modo tradirlo. Il monachesimo tradizionale è da sempre stato espressione di quella «nuova innocenza che non ha più altro da dire, perché sente che tutto è già stato detto». Come dicevano gli antichi greci, gli Dei ci hanno dato 'due' orecchie e 'una' sola bocca, affinché imparassimo ad ascoltare il doppio e a parlare la metà. Con gli anni, ogni individuo che intraprende il cammino spirituale impara a parlare di meno, fino a tacere. Avverte sulla propria pelle tutta la vanità delle parole: non sono che flatus vocis. Per questo motivo, nelle vie monastiche tradizionali l'esercizio del silenzio è sempre stato molto praticato. Nei monasteri ancora oggi non si parla in determinati momenti della giornata, talvolta neppure a tavola, e anche quando lo si può fare ci si esercita ad una sobria moderazione nell'uso della parola. Comprendiamo come, in questa prospettiva, i monaci tradizionali parlino e scrivano poco, come il Buddha raccomandi il nobile silenzio e 'silenzioso' sia sinonimo di monaco, e anche il celebre paradosso taoista: il tao che può essere espresso non è il tao; coloro che sanno non parlano e coloro che parlano non sanno, fino alla affermazione evangelica secondo la quale il mistero del Regno dei cieli «è compreso da coloro che non comprendono».

Massimo Diana 


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