PAIDÈIA
CULTURA E SOCIETÀ

Così l'Atene del periodo aureo definiva quello che oggi è il piano educativo, il percorso volto a fare di un bambino un uomo scolasticamente istruito, spiritualmente ed eticamente formato per essere un cittadino completo ed inserirsi armoniosamente in società.
Non basta la famiglia, servono le istituzioni, scolastiche, sociali, sportive, religiose, servono più ambiti ove il giovane possa muoversi per educarsi, intendendo - etimologicamente- il far emergere, il portare fuori da sé le attitudini, le abilità, gli interessi, le inclinazioni in base alle quali potrà tentare la costruzione della vita adulta e l'evoluzione professionale. Il tutto si svolge in anni e anni di lavoro, spesso faticoso, troppo spesso noioso, quasi sempre apparentemente inutile perché, attualmente soprattutto, la vita vera sembra essere altrove, non nelle materie di studio, nella disciplina e nell'impegno richiesto, in risultati che sembrano non portare ad alcunché. Lo sguardo dei nostri giovani si posa al di fuori del sé e viaggia alla vorticosa velocità degli stimoli tanti e tali da non permettere sosta e riflessione e, soprattutto, da non lasciare che l'emozione faccia capolino e agisca. Si guarda all'altro come a qualcuno da imitare o fuggire, possibilmente raggiungere e superare, non capire e interloquire. Il traguardo coincide con un avere (posizione danaro oggetti stato sociale) e non con un essere (sono quello che voglio essere, ho realizzato a fondo un desiderio), giorni mesi e anni volano forsennati a caccia di titoli, riconoscimenti, tappe da mettere a curriculum, 'esperienze' maturate nel mondo, nominativi da inserire in sterminate rubriche su memorie elettroniche sempre più potenti a detrimento di quella umana sempre più fragile e volatile. Non è sede per una completa ed esaustiva analisi, che peraltro esula dal mio compito. Vorrei partire da un termine per tentare l'approccio all'analisi. AMORE.

Parolona, strausata, ridotta a interiezione. Invece è essenza. Ed è mancanza. Non ci può essere paidèia senza amore, che solo è in grado di portare la formazione dalla testa al cuore e di 'costruire' una 'persona'. Amare profondamente ciò che si fa, credere che sia il mezzo giusto per crescere , amare e confidare fino a non sentire la fatica, o almeno a percepirla lieta. Credo sia qui il segreto. Non riusciamo a tramandare l'amore.
Riusciamo a dettare norme, instillare concetti e informazioni, suscitare curiosità, destare interessi che sono grandi fiammate che lasciano poca cenere ma non sappiamo dare l'amore che scalda, dura, regge nel tempo, che fonda e che edifica.
Un insegnante deve amare la sua materia, viverla sulla pelle, trasmetterla amando i suoi ragazzi, mostrandone le sfaccettature, le forze, le debolezze, i punti luce e i punti ombra e deve seguire i suoi ragazzi nelle stagioni degli anni, percependone i silenzi le risate i pianti le solitudini gli ardori le amicizie gli amori e coniugando tutto come un direttore d'orchestra armonizza gli strumenti tra loro; ecco allora che quella poesia calza perfettamente con la tristezza di ieri, il calcolo matematico riuscito è proprio frutto di quel lavoro fatto bene, il concetto filosofico assimilato è dovuto all'averlo confrontato all'esperienza fatta, la medaglia sportiva viene da impegno sacrificio buona prova e fortuna e non dall'essere un fenomeno. Il Maestro, con il suo sapere volendo profondamente il bene dell'allievo, amando la materia e la professione non trasmette nozioni, ma la vita in più aspetti, accompagna nella crescita, capisce lo sforzo, vede il limite, culla l'interesse, frena l'intemperanza, stimola la curiosità, corregge l'errore, valuta una prova, consiglia, ascolta e affianca i genitori e altre figure di riferimento.
Vedo amore in questa figura di Maestro, oggi tanto raro credo, oggi e sempre a dire il vero; fortunati ad averne avuti, io superfortunata, due grandissimi ne ho tra i ricordi più cari, rose con spine ma guai non ci fossero stati.
Silvia Alberti
