VENERDI 12 MARZO 2021

Similitudine del Paradiso promesso ai timorati è questa: vi sono fiumi d'acque incorruttibili, fiumi di latte inalterabile, fiumi di vino, delizia di chi beve. E fiumi di miele purificato, e avranno ogni specie di frutti, e l'indulgenza del loro Signore.
(Corano XLVII, 15)
Come scrive la curatrice dell'Antologia del Corano da cui ho tratto il passo letto, s'è molto parlato e ironizzato in Occidente sul Paradiso islamico, inteso come un luogo di lussuria e di piaceri sensuali d'ogni genere contrapposto alla diafana atmosfera di gloria e di mistica beatitudine del suo equivalente cristiano. In realtà il testo coranico non contiene in alcun luogo passi licenziosi; ciò che viene promesso ai credenti è solo un soggiorno beato, in cui l'eterna Vita Divina pervade una terra trasfigurata: la dimora celeste è un'immagine, perfetta e incorruttibile, di quella terrestre e ancora una volta le forme e i modi dell'esperienza quotidiana sono presi a simboli per descrivere l'ineffabile. Tutte queste immagini meravigliose del Giardino celeste non sono che «similitudini» di quello che potrebbe essere già da ora la nostra vita se trovassimo in noi la Pace. Paradiso e Inferno, più che luoghi metafisici di un tempo ancora a venire, sono condizioni esistenziali. Paradiso e Inferno cominciano già ora e possono durare per l'intera nostra esistenza - una eternità, il tutto della nostra vita.

Mio Signore, la tua bellezza sia mio nutrimento, la tua presenza mia bevanda.
Il tuo piacere sia la mia speranza, la tua glorificazione il mio agire, il tuo ricordo la mia compagnia.
La potenza della tua sovranità sia il mio sostegno e la tua dimora il mio focolare domestico.
La mia abitazione sia il luogo che tu hai santificato, liberato da tutti i limiti imposti a quelli che un velo separa da te.
Tu sei in verità l'onnipotente, il sovrano glorioso; tu sei colui al quale tutte le cose sono sottomesse.
(Baha' Allāh)

In un angolo remoto dell'Impero, in quel mattino di giugno - nei pressi di un campo verde all'estremità nordoccidentale dell'India britannica - uno dei più giovani sudditi di Vittoria, Abdul Ghaffar Khan, di sette anni, stava lavorando con energia per catturare un tronchetto che navigava nelle acque meno profonde del fiume Swat. Il sole splendeva, l'aria che percorreva la valle era fresca. Dietro il bambino, i campi della fattoria del padre si stendevano ampi e verdi fino alle pendici del passo Khyber. Ghaffar Khan non aveva probabilmente mai sentito parlare di Vittoria (...) Al momento, ciò che importava al ragazzo era un tronchetto che si allontanava dalla riva verso la corrente.
(Eknath Easwaran, Badshah Khan. Il Gandhi musulmano)
Così inizia la storia del piccolo Ghaffar Khan, in questa pagina che mette meravigliosamente a confronto il 'grande' e il 'piccolo'. L'immensamente grande - dovremmo dire, visto che in quel particolare giorno della storia mondiale, il 22 giugno 1897, la regina Vittoria festeggiava il suo «giubileo di diamante», sessant'anni sul trono inglese. Proprio nel momento in cui la regina inizia a trasmettere il suo messaggio ai 372 milioni di sudditi dell'impero britannico, un bambino è tutto indaffarato con un semplice gioco: catturare e governare un pezzo di legno che galleggia sulle acque del fiume Swat. Da una parte, dunque, lo scenario mondiale, un evento riportato su tutti i giornali dell'epoca e successivamente in tutti i libri di storia; dall'altra parte l'immensamente piccolo, l'insignificante, che mai nessun giornale riporterà: cosa mai avrebbe da dire un semplice gioco di un piccolo bambino, uno tra i tanti milioni di bambini che ogni giorno giocano, come possono e come riescono? Eppure noi, oltre cento anni dopo, ricordiamo proprio questo 'piccolo' fatto, a testimonianza di una vita che, per molti aspetti, ha inciso nella storia umana - quella scritta dallo Spirito - molto più a fondo di quanto abbia inciso la 'grande' regina Vittoria.
Massimo Diana